La lingua per una liturgia viva: il latino?
Gesù parlava in aramaico, la lingua del suo tempo, grazie
alla quale si faceva ascoltare dalla gente in modo semplice e diretto e, a sua
volta, l'aramaico era la lingua con la quale la gente si rivolgeva a lui. Gesù non solo non ha parlato una lingua
sacra, ma utilizzava il vocabolario e le immagini della vita quotidiana
(domestica, agraria o professionale) molto di più del vocabolario
religioso. Parlava di Dio con profondità
e spessore ma in modo semplice, diretto ed efficace, al punto che l'evangelista
Matteo annota che "le folle erano stupide del suo insegnamento: egli,
infatti, insegnava loro come uno che ha autorità, e non come i loro scribi” (Mt
7,28-29), e nel quarto vangelo le guardie riferiscono ai sacerdoti e ai
farisei: «Mai un uomo ha
parlato così! (Gv 7,46). Ciò che
colpiva non era solo quello che Gesù diceva ma come lo diceva.
La riforma liturgica del Vaticano II ha riportato nella
liturgia la lingua viva, e questo è uno di quegli elementi ormai
irrinunciabili, che hanno fatto dire a papa Francesco che "la riforma
liturgica è irreversibile". Tuttavia oggi, a più di mezzo secolo di distanza,
le condizioni culturali e il livello medio di conoscenza delle verità di fede
cristiana degli uomini e delle donne che compongono le nostre assemblee
liturgiche, le trasformazioni e a ben guardare anche l'impoverimento del
linguaggio e del vocabolario comune della fede, ci spingono o forse ci
impongono di essere particolarmente vigili non solo sul linguaggio e il
vocabolario, ma anche sulle immagini e sulle figure che le nostre liturgie
utilizzano. Vigilanti nel senso di non dare
mai per scontato che esse parlino sempre e comunque alla nostra gente.
G. Boselli, Il senso umano della liturgia, Edizioni Qiqajon, Comunità di Bose, pp. 14-15.
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